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giovedì 15 aprile 2021
APRILE 2021 - CIAO MICHELE :-(
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giovedì 12 novembre 2020
Nassiriya: il grido di dolore dei superstiti.
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giovedì 19 luglio 2018
19 luglio - ANNIVERSARIO DI UN EROE NAZIONALE, DI UN GIUDICE VERO, DI UN UOMO DI DESTRA.
Il 19 luglio del 1992 fu ucciso a Palermo il presidente ideale della seconda repubblica italiana. Era un magistrato, come colui che fu poi eletto presidente della repubblica (Scalfaro), ma lui all'Italia dette la vita e non la retorica.
Era un magistrato ma non era malato di protagonismo e di livore ideologico. Quarantasette parlamentari del MSI lo votarono Presidente di una Repubblica ideale. Quarantasette, morto che parla e dopo che avevano ucciso Falcone,
Paolo Borsellino era un morto che parlava. Sapeva ormai da due mesi che il prossimo sarebbe stato lui ma rimase al posto suo, a testa alta. Perché lui era davvero un uomo d'onore, nel senso che alla mafia di una volta incuteva timore e rispetto; meno alla nuova, più spregiudicata e cinica. Lui era un servitore dello Stato, credeva nell'autorità dello Stato e nella missione del magistrato. Non serviva solo la Repubblica e la Costituzione ma amava la sua patria, l'Italia, a partire dalla sua Sicilia.
Non a caso, da giovane aveva militato nelle organizzazioni del Msi. Pochi ricordano che fu tre giorni prima della strage di Capaci, avvenuta durante le votazioni per l'elezione del presidente della repubblica, che i 47 missini votarono Borsellino presidente. Peccato che furono così pochi, e altri non si accodarono: forse quel voto avrebbe salvato la vita a lui e la dignità alla repubblica. Lo diciamo col senno di poi, forse avremmo salvato un grande uomo.
Quanta gente campa ancora sulla morte di Paolo Borsellino. Quanti magistrati devono a eroi come lui se hanno avuto largo credito e pubblica fiducia. La magistratura italiana per anni ha vissuto sull'eredità di toghe insanguinate come la sua, godendo di un'autorevolezza assoluta. Nessuno poteva toccare il ruolo e il prestigio delle toghe dopo il sacrificio di Falcone e Borsellino. Quante anime belle hanno inzuppato la loro retorica nel sangue di quel magistrato.
C'è una vena di sciacalleria in tutto questo e di appropriazione indebita della memoria di un eroe, un martire e un galantuomo. Perché Borsellino non era un giudice d'assalto malato di protagonismo e di furore ideologico, come molti magistrati che abbiamo tristemente conosciuto negli ultimi anni.
Borsellino non era un giudice giacobino, non cercava popolarità attraverso clamorosi atti giudiziari, e tantomeno pensava di darsi alla politica, di portare all'incasso la sua fama di giudice antimafia. Borsellino era davvero un uomo d'onore, nel senso che alla mafia di una volta incuteva timore e rispetto; meno alla nuova, più spregiudicata e cinica della precedente. Borsellino era un servitore dello Stato, uno che credeva nell'autorità dello Stato e nella missione del magistrato. Non serviva solo la Repubblica e la Costituzione ma amava la sua patria, l'Italia, a partire dalla sua Sicilia.
Perché Borsellino era un uomo di destra, fin da ragazzo aveva militato nelle organizzazioni studentesche missine. Borsellino aveva diretto un giornale destrorso al liceo, Agorà, poi si era iscritto al Fuan nel 1959, entrò nell'esecutivo provinciale tre anni dopo e diventò vice. Borsellino rischiava per le proprie convinzioni perché come scriveva Pound se non rischi per le tue idee o non valgono niente le tue idee o non vali niente tu.
Sono stati tanti gli eroi e martiri di questa pur ingloriosa repubblica; e nella lotta alla criminalità siciliana o campana molti caduti furono siciliani, campani e di destra, anzi missini. Borsellino andò incontro alla morte con eroico fatalismo, sapendo che ormai una sentenza di morte era stata scritta contro di lui. Conosceva troppo bene la mafia e i mafiosi per non averlo capito. L'agonia di Paolo Borsellino non fu breve, come scrissero le cronache di quel venti luglio, ma durò ben cinquantotto giorni. Perché quando fu ucciso Falcone con la sua scorta, il 22 maggio a Capaci, Borsellino capì che il prossimo della lista era lui.
Lo sentiva, glielo facevano sentire e lo avvertivano anche coloro che gli stavano intorno e gli osservatori più attenti. Andò incontro all'ultimo appuntamento senza inscenare piazzate, conferenze stampa, movimenti di popolo e sceneggiate. Aveva la sua scorta ma sapeva, dopo il caso Falcone, che gli uomini della scorta più che scudi, rischiavano di diventare suoi consorti, legati al suo tragico destino, come poi accadde. Così trascorse quella mezza estate del '92 guardando in faccia il suo destino e i suoi carnefici, senza defilarsi o cambiar mestiere. Un'estate decisiva, che segnò poi la fine della prima repubblica, l'elezione di Scalfaro, lo sviluppo di Tangentopoli.
Beato un popolo che onora i suoi eroi di cui abbiamo bisogno più del pane. Eroi come Borsellino.
(liberamente tratto da Marcello Veneziani, Il Tempo 8 dicembre 2016)
Fabio Sabbatani Schiuma
www.studiostampa.com
Era un magistrato ma non era malato di protagonismo e di livore ideologico. Quarantasette parlamentari del MSI lo votarono Presidente di una Repubblica ideale. Quarantasette, morto che parla e dopo che avevano ucciso Falcone,
Paolo Borsellino era un morto che parlava. Sapeva ormai da due mesi che il prossimo sarebbe stato lui ma rimase al posto suo, a testa alta. Perché lui era davvero un uomo d'onore, nel senso che alla mafia di una volta incuteva timore e rispetto; meno alla nuova, più spregiudicata e cinica. Lui era un servitore dello Stato, credeva nell'autorità dello Stato e nella missione del magistrato. Non serviva solo la Repubblica e la Costituzione ma amava la sua patria, l'Italia, a partire dalla sua Sicilia.
Non a caso, da giovane aveva militato nelle organizzazioni del Msi. Pochi ricordano che fu tre giorni prima della strage di Capaci, avvenuta durante le votazioni per l'elezione del presidente della repubblica, che i 47 missini votarono Borsellino presidente. Peccato che furono così pochi, e altri non si accodarono: forse quel voto avrebbe salvato la vita a lui e la dignità alla repubblica. Lo diciamo col senno di poi, forse avremmo salvato un grande uomo.
Quanta gente campa ancora sulla morte di Paolo Borsellino. Quanti magistrati devono a eroi come lui se hanno avuto largo credito e pubblica fiducia. La magistratura italiana per anni ha vissuto sull'eredità di toghe insanguinate come la sua, godendo di un'autorevolezza assoluta. Nessuno poteva toccare il ruolo e il prestigio delle toghe dopo il sacrificio di Falcone e Borsellino. Quante anime belle hanno inzuppato la loro retorica nel sangue di quel magistrato.
C'è una vena di sciacalleria in tutto questo e di appropriazione indebita della memoria di un eroe, un martire e un galantuomo. Perché Borsellino non era un giudice d'assalto malato di protagonismo e di furore ideologico, come molti magistrati che abbiamo tristemente conosciuto negli ultimi anni.
Borsellino non era un giudice giacobino, non cercava popolarità attraverso clamorosi atti giudiziari, e tantomeno pensava di darsi alla politica, di portare all'incasso la sua fama di giudice antimafia. Borsellino era davvero un uomo d'onore, nel senso che alla mafia di una volta incuteva timore e rispetto; meno alla nuova, più spregiudicata e cinica della precedente. Borsellino era un servitore dello Stato, uno che credeva nell'autorità dello Stato e nella missione del magistrato. Non serviva solo la Repubblica e la Costituzione ma amava la sua patria, l'Italia, a partire dalla sua Sicilia.
Perché Borsellino era un uomo di destra, fin da ragazzo aveva militato nelle organizzazioni studentesche missine. Borsellino aveva diretto un giornale destrorso al liceo, Agorà, poi si era iscritto al Fuan nel 1959, entrò nell'esecutivo provinciale tre anni dopo e diventò vice. Borsellino rischiava per le proprie convinzioni perché come scriveva Pound se non rischi per le tue idee o non valgono niente le tue idee o non vali niente tu.
Sono stati tanti gli eroi e martiri di questa pur ingloriosa repubblica; e nella lotta alla criminalità siciliana o campana molti caduti furono siciliani, campani e di destra, anzi missini. Borsellino andò incontro alla morte con eroico fatalismo, sapendo che ormai una sentenza di morte era stata scritta contro di lui. Conosceva troppo bene la mafia e i mafiosi per non averlo capito. L'agonia di Paolo Borsellino non fu breve, come scrissero le cronache di quel venti luglio, ma durò ben cinquantotto giorni. Perché quando fu ucciso Falcone con la sua scorta, il 22 maggio a Capaci, Borsellino capì che il prossimo della lista era lui.
Lo sentiva, glielo facevano sentire e lo avvertivano anche coloro che gli stavano intorno e gli osservatori più attenti. Andò incontro all'ultimo appuntamento senza inscenare piazzate, conferenze stampa, movimenti di popolo e sceneggiate. Aveva la sua scorta ma sapeva, dopo il caso Falcone, che gli uomini della scorta più che scudi, rischiavano di diventare suoi consorti, legati al suo tragico destino, come poi accadde. Così trascorse quella mezza estate del '92 guardando in faccia il suo destino e i suoi carnefici, senza defilarsi o cambiar mestiere. Un'estate decisiva, che segnò poi la fine della prima repubblica, l'elezione di Scalfaro, lo sviluppo di Tangentopoli.
Beato un popolo che onora i suoi eroi di cui abbiamo bisogno più del pane. Eroi come Borsellino.
(liberamente tratto da Marcello Veneziani, Il Tempo 8 dicembre 2016)
Fabio Sabbatani Schiuma
www.studiostampa.com
lunedì 5 febbraio 2018
RIVA DESTRA E' ONORE, LEALTÀ E FEDELTÀ !
"Non possiamo dimenticare chi siamo e da dove veniamo" di Fabio Sabbatani Schiuma*
Ho rivisto volentieri, dimenticando oramai per quante volte l'ho fatto, il film "L'ultimo Samurai" Domenica 4 febbraio. Una pellicola che mi ha sempre colpito, non solo per la bellezza di Taka e per i suoi tratti di disciplina zen da cui è pervasa quasi ogni singola scena (e sempre ne scopro un aspetto nuovo), ma per le parole che sintetizzano questo film, per quanto commerciale e romanzato: ONORE E FEDELTÀ, in rispetto dei quali, il vero protagonista (non Tom Cruise) arriva a sacrificare la sua stessa vita.
Ebbene, ogni occasione è buona per ricordare a me stesso, la figura di uno zio avuto in famiglia. Al comando di un treno armato in Sicilia, zio Carlo, durante l'ultimo conflitto, lo difese fino allo stremo e solo per non lasciar morire i suoi soldati, a causa della superiorità numerica e logistica delle truppe anglo-americane, alla fine dovette arrendersi. Ricevuto l'onore delle armi dagli avversari, che riconobbero il coraggio e il valore di questo manipolo di nostri connazionali, gli fu restituita la sua pistola. Ebbene, Carlo prese la Bandiera Italiana e, con le parole (testimoniate dai suoi commilitoni sopravvissuti) "questa non posso consegnarla", si sparò alla tempia.
Altri tempi, certamente, nell'orrore di qualsiasi guerra. Ma anche della lenta agonia di queste due parole sempre più in disuso.
Per chi passa in via Germanico a Roma, c'è un balcone al secondo piano, la mia abitazione, con esposto 365 giorni l'anno, un tricolore.
È la tua bandiera, zio Carlo.
www.studiostampa.com
Ebbene, ogni occasione è buona per ricordare a me stesso, la figura di uno zio avuto in famiglia. Al comando di un treno armato in Sicilia, zio Carlo, durante l'ultimo conflitto, lo difese fino allo stremo e solo per non lasciar morire i suoi soldati, a causa della superiorità numerica e logistica delle truppe anglo-americane, alla fine dovette arrendersi. Ricevuto l'onore delle armi dagli avversari, che riconobbero il coraggio e il valore di questo manipolo di nostri connazionali, gli fu restituita la sua pistola. Ebbene, Carlo prese la Bandiera Italiana e, con le parole (testimoniate dai suoi commilitoni sopravvissuti) "questa non posso consegnarla", si sparò alla tempia.
Altri tempi, certamente, nell'orrore di qualsiasi guerra. Ma anche della lenta agonia di queste due parole sempre più in disuso.
Per chi passa in via Germanico a Roma, c'è un balcone al secondo piano, la mia abitazione, con esposto 365 giorni l'anno, un tricolore.
È la tua bandiera, zio Carlo.
martedì 24 ottobre 2017
venerdì 21 febbraio 2014
BORGNA, SCHIUMA: «AVVERSARIO POLITICO CHE RICORDO CON STIMA E AFFETTO»
(OMNIROMA) Roma, 21 FEB - "Vado in Campidoglio per l'addio a Gianni Borgna, un avversario politico a cui ho però sempre riconosciuto grande cultura, profonda umanità, garbo ed educazione. È stato l'assessore alle politiche culturali delle giunte Rutelli e Veltroni: da vicepresidente del gruppo di Alleanza Nazionale prima e da vicepresidente del Consiglio comunale poi, l'ho avversato in tutti i modi: ero fortemente contro quella politica del 'panem et circenses', ma ricordo bene quanto lui non fosse uno show man, bensì ricercasse squisitamente il lato culturale di ogni evento: visione, la sua, completamente opposta alla mia, ma questo non m'impedisce di riconoscergli l'altissimo spessore che lo ha caratterizzato e comunque anche una notevole apertura intellettuale». Lo dichiara in una nota Fabio Sabbatani Schiuma, già consigliere comunale dal 1997 al 2013 e vicepresidente del Consiglio comunale di Roma. «Lo ricordo con stima e anche affetto - continua Schiuma - che comunque caratterizzavano tanto le nostre aspre litigate nella sua stanza o in aula, mai comunque volgari, quanto le squisite dissertazioni sul calcio e sulla nostra Lazio, quando per caso c'incontravamo in qualche caffè del Rione Prati». Non smetterò mai di ringraziarlo - conclude Schiuma - per la strada intestata a Lucio Battisti, una mia iniziativa che senza la sua sponda, avrebbe mai visto la luce a causa della politicizzazione di alcuni suoi compagni di partito. Ma lui tiro dritto, mi aiutò davvero per la deroga e riconobbe pubblicamente la mia paternità dell'iniziativa.
E per un avversario politico non è poco. Ciao, grande Assessore".
red 211209 FEB 14
IL MOMENTO DELLA STRADA A LUCIO BATTISTI - VIDEO
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E per un avversario politico non è poco. Ciao, grande Assessore".
red 211209 FEB 14
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